In apertura dell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta questo lavoro veniva da noi presentato come se dovesse costituire l’inizio di una serie di studi nei quali avremmo potuto. secondo i casi, vuoi esporre direttamente taluni aspetti delle dottrine metafisiche d’Oriente, vuoi adattare queste ultime nel modo che ci sarebbe parso più intelligibile e più profittevole, rimanendo tuttavia sempre rigorosamente fedeli al loro spirito. Riprendiamo qui questa serie di studi, dopo aver dovuto interromperla temporaneamente per redigere altri lavori resi necessari da certe considerazioni di opportunità, lavori nel quali ci siamo maggiormente calati nel campo delle applicazioni contingenti; ma anche in questo caso non abbiamo mai un solo istante perduto di vista i principi metafisici, i quali sono l’unico fondamento di ogni vero insegnamento tradizionale. Nell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta abbiamo fatto vedere come un essere come l’uomo venga guardato da una dottrina tradizionale e di tipo puramente metafisico, e ciò contenendoci – nel modo più rigoroso possibile – all’esposizione esatta e alla conforme interpretazione della dottrina, o, per lo meno, non esorbitandone se non per segnalare, quando se ne presentasse l’occasione, le concordanze di questa dottrina con altre forme tradizionali. In effetti, la nostra intenzione non è mai stata quella di rinchiuderci in modo esclusivo in una forma determinata – cosa che del resto sarebbe ben difficile quando si sia presa coscienza dell’unità di essenza che si cela sotto la diversità delle forme più o meno esteriori, forme che in definitiva altro non sono se non altrettanti rivestimenti di una sola e identica verità. Se per ragioni che abbiamo già spiegato in altra sede, abbiamo in linea di massima assunto quale punto di vista centrale quello delle dottrine indù, ciò non ha affatto la conseguenza di impedirci il ricorso, ogni volta che l’argomento si presti, ai modi di esprimersi delle altre tradizioni, a patto – beninteso – che si tratti sempre di tradizioni vere, tradizioni che possiamo dire regolari e ortodosse, intendendo tali parole nel senso da noi definito in altre occasioni.
È questo che faremo qui, in particolare, più liberamente che non nel lavoro precedente, in quanto ci dedicheremo non più all’esposizione di un determinato ramo di dottrina, com’esso esiste in una certa civiltà, ma alla spiegazione di un simbolo che è precisamente fra quelli che sono comuni a quasi tutte le tradizioni, caratteristica che ai nostri occhi sta a indicare che si ricollegano direttamente alla grande Tradizione primordiale. A tal proposito, dobbiamo insistere un poco su un punto che ha una particolare importanza al fine di dissipare molte confusioni sfortunatamente troppo frequenti nella nostra epoca; intendiamo parlare della differenza capitale esistente tra «sintesi» e «sincretismo». Il sincretismo consiste nell’accozzare dal di fuori elementi più o meno eterogenei, i quali, visti in tal modo, non possono mai essere veramente unificati; in definitiva, si tratta di una sorta di eclettismo, con tutto quel che quest’ultimo sempre comporta di frammentario e di incoerente. È dunque qualcosa di puramente esteriore e superficiale; gli elementi che vengono così raccolti da diverse parti e riuniti in tal modo artificialmente non hanno mai altro carattere se non quello di imprestiti, non passibili di un’effettiva integrazione in una dottrina degna di questo nome. Al contrario, la sintesi è sempre effettuata dal di dentro; con ciò intendiamo dire che essa consiste in modo proprio nel prendere in considerazione le cose nell’unità del loro stesso principio, nel vedere come esse derivino e dipendano da questo principio, nell’unirle in tal maniera – o meglio, nel prendere coscienza della loro unione reale, in virtù di un legame del tutto interiore, inerente a ciò che di più profondo c’è nella loro natura.
Per applicare quanto stiamo dicendo all’argomento che ci occupa al presente, si può dire che si avrà sincretismo tutte le volte che ci si limiterà a trarre degli elementi da differenti forme tradizionali, per saldarli in certo qual modo esteriormente gli uni agli altri, senza sapere che in fondo non c’è che un’unica dottrina della quale tali forme sono semplicemente altrettante espressioni diverse, altrettanti adattamenti a condizioni mentali particolari, in relazione con circostanze determinate di tempo e di luogo. In un simile caso, da questo raffazzonamento non potrà uscire nulla di valevole; per adottare un paragone facilmente comprensibile, invece di un insieme organizzato, non risulterà che una raccolta informe di detriti inutilizzabili, in quanto ad essa mancherà quel che potrebbe dar loro un’unità analoga a quella di un essere vivente o di un edificio armonioso; ed è tipico del sincretismo, proprio a motivo della sua esteriorità, una simile unità il non poter realizzarla. Per converso, si avrà sintesi quando si partirà dall’unità stessa, e quando non la si perderà mai di vista attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni, il che implica che si abbia raggiunto, al di fuori e al di là delle forme, la coscienza della verità principiale che di queste ultime si riveste per esprimersi e comunicarsi nella misura del possibile. In conseguenza di ciò, ci si potrà servire dell’una o dell’altra di tali forme secondo che si reputi vantaggioso il farlo, esattamente nello stesso modo in cui si può, per tradurre uno stesso pensiero, servirsi di lingue diverse col mutare delle circostanze, alfine di farsi capire dagli interlocutori differenti ai quali ci si rivolge; d’altro canto, è proprio questo a cui certe tradizioni danno simbolicamente il nome di «dono delle lingue». Si potrebbe dire che le concordanze tra tutte le forme tradizionali rappresentino reali «sinonimie»; è in questa luce che noi le guardiamo e ce ne serviamo, e così come la spiegazione di determinate cose può rivelarsi più facile in questa che non in quella lingua, una di tali forme potrà meglio adattarsi delle altre all’esposizione di certe verità e rendere queste ultime più facilmente intelligibili. È perciò perfettamente legittimo, in ciascun caso, fare uso della forma che appare più appropriata a quanto ci si propone; passare dall’una all’altra non presenta nessun inconveniente, a condizione che se ne conosca realmente l’equivalenza, cosa che non può avvenire se non partendo dal loro principio comune. Di conseguenza, in questo caso non vi è sincretismo; del resto, quest’ultimo non è che un punto di vista puramente «profano», incompatibile con la stessa nozione di «scienza sacra» a cui questi studi esclusivamente si riferiscono.
Abbiamo detto che la croce è un simbolo che, sotto forme diverse, si incontra quasi dappertutto, e a partire dalle epoche più remote; essa è quindi ben lungi dall’appartenere in proprio ed in modo esclusivo al Cristianesimo, come certuni potrebbero essere tentati di credere. Bisogna inoltre dire che il Cristianesimo, per lo meno nel suo aspetto esteriore e conosciuto generalmente, sembra aver un po’ perduto di vista il carattere simbolico della croce per considerarla soltanto più il segno di un fatto storico; in realtà, questi due punti di vista non si escludono affatto, ed, anzi, il secondo non è in certo qual senso se non una conseguenza del primo; sennonché questo modo di guardare alle cose è talmente estraneo alla gran maggioranza dei nostri contemporanei che è giocoforza arrestarci su di esso un istante, ad evitare qualche malinteso. Di fatto, troppo spesso si ha tendenza a pensare che l’accettazione di un senso simbolico debba comportare il rifiuto di un senso letterale o storico; un’opinione del genere non è che il prodotto dell’ignoranza della legge di corrispondenza che è il fondamento stesso di ogni simbolismo, e in virtù della quale qualsiasi cosa, poiché discende essenzialmente da un principio metafisico dal quale ricava tutta la sua realtà, traduce o esprime tale principio alla sua maniera e secondo il suo ordine di esistenza, per modo che da un ordine all’altro, tutte le cose si concatenano e corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale, la quale è, nella molteplicità della manifestazione, in certo modo un riflesso della stessa unità principiale. È questa la ragione per cui le leggi di una sfera inferiore possono sempre essere assunte a simbolo delle realtà di un ordine superiore, nelle quali esse hanno la loro ragione profonda, che è insieme il loro principio e la loro fine; e possiamo ricordare – in questa occasione –, tanto più che proprio qui ne troveremo degli esempi, l’errore delle moderne interpretazioni «naturalistiche» delle antiche dottrine tradizionali, interpretazioni che rovesciano semplicemente la gerarchia dei rapporti tra i diversi ordini di realtà.
I simboli o i miti non hanno infatti mai avuto la funzione – come vorrebbe una teoria anche troppo diffusa ai giorni nostri – di rappresentare il movimento degli astri; la verità è che in essi si trovano spesso figure che si ispirano a quest’ultimo e che sono destinate ad esprimere analogicamente qualcosa di totalmente diverso, in quanto le leggi di tale movimento traducono fisicamente i principi metafisici dai quali dipendono. Quel che diciamo dei fenomeni astronomici si può dirlo del pari, e allo stesso titolo, di ogni altro genere di fenomeni naturali: questi fenomeni, in quanto derivano da principi superiori e trascendenti, sono veramente simboli di questi ultimi; ed è evidente che questo non infirma affatto la realtà propria che simili fenomeni posseggono, come tali, nel campo di esistenza al quale appartengono; ben al contrario, è proprio questo che dà fondamento a tale realtà, poiché al di fuori della loro dipendenza nei confronti dei principi, tutte le cose non sarebbero se non puro nulla. Come per tutto il resto, la stessa cosa accade dei fatti storici: essi pure si conformano necessariamente alla legge di corrispondenza della quale abbiamo or ora parlato, e in conseguenza di ciò traducono secondo il loro modo le realtà superiori, delle quali non sono in certo qual modo se non un’espressione umana; aggiungeremo che è questo a costituire ai nostri occhi tutto il loro interesse, da un punto di vista che – la cosa è evidente - è totalmente diverso da quello in cui si pongono gli storici «profani».
Tale carattere simbolico, quantunque comune a tutti i fatti storici, deve essere particolarmente evidente per quelli fra essi che costituiscono quella che può più propriamente esser detta la «storia sacra»; ed è a motivo di ciò che lo si ritrova in particolare, in maniera impressionante, in tutte le circostanze della vita di Cristo. Se si è ben capito quanto abbiamo detto finora, si comprenderà immediatamente che non solo questa non è una ragione per negare la realtà di tali avvenimenti e per considerarli puri e semplici «miti», ma che – al contrario – simili avvenimenti dovevano essere quelli che sono stati e non potevano essere diversi; d’altronde, come si potrebbe attribuire un carattere sacro a qualcosa che sia privo di ogni significato trascendente? In particolare, se Cristo è morto sulla croce, si può dire che sia a motivo del valore simbolico che la croce possiede di per sé e che le è sempre stato riconosciuto da tutte le tradizioni; ed è questa la ragione per cui, senza che si sminuisca minimamente il suo significato storico, si può considerare quest’ultimo come derivato dal suo stesso valore simbolico.
Un’altra conseguenza della legge di corrispondenza è la pluralità dei significati inclusi in ogni simbolo: si può ritenere, infatti, che qualsiasi cosa rappresenti non soltanto i principi metafisici, ma anche le realtà di ogni ordine che sono superiori al suo, realtà che, pur se ancora contingenti e dalle quali essa dipende inoltre più o meno direttamente, rivestono nei suoi confronti la parte di «cause seconde»; e l’effetto può sempre venire assunto quale simbolo della causa, qualunque sia il livello al quale ciò avviene, giacché tutto ciò che l’effetto è altro non è se non l’espressione di qualcosa che è inerente alla natura della sua stessa causa. Tali significati simbolici molteplici e gerarchicamente sovrapposti non si escludono affatto reciprocamente, non più di quanto escludano il senso letterale; sono anzi perfettamente concordanti tra di loro, perché in realtà esprimono le applicazioni di uno stesso principio a ordini diversi; ed in tal modo si completano e si corroborano, integrandosi nell’armonia della sintesi totale. È proprio questo, d’altra parte, che rende il simbolismo un linguaggio molto meno limitato del linguaggio comune, e fa di esso il solo linguaggio adatto per l’espressione e per la comunicazione di certe verità; è in ragione di ciò che esso apre possibilità di concezione veramente illimitate; è in ragione di ciò che esso costituisce il linguaggio iniziatico per eccellenza, il veicolo indispensabile di ogni insegnamento tradizionale.
La croce ha perciò, come tutti i simboli, molteplici significati; ma questi significati non è nostra intenzione svilupparli qui tutti in ugual maniera, e alcuni di essi li indicheremo in modo appena occasionale. Quello che ci prefiggiamo essenzialmente di esprimere, in effetti, è il significato metafisico, il quale è del resto il primo e il più importante di tutti, dal momento che è il significato propriamente principiale; tutti gli altri sono soltanto applicazioni contingenti e più o meno secondarie. Se ci accadrà di prendere in esame talune di questa applicazioni, in fondo sarà sempre e soltanto per ricollegarle alla sfera metafisica, giacché è questo che – ai nostri occhi – le rende valide e legittime, secondo la concezione, così completamente dimenticata dal mondo moderno, delle «scienze tradizionali».